In questo articolo spiegheremo perché quando una coppia si unisce in matrimonio (o quantomeno si fidanza) si è soliti dire loro: “Auguri e figli maschi“. L’espressione è giustificata col fatto che il figlio maschio portava avanti il cognome della famiglia. I maschi, inoltre assicuravano in tempi antichi una forza lavoro preziosa per la famiglia, con maggiori entrate economiche. In passato le ragazze non lavoravano e quindi non garantivano un vero e proprio beneficio economico alla famiglia.
“Il Figlio maschio portava avanti il cognome della famiglia”
Figli maschi: l’importanza del cognome
L’espressione “Auguri e figli maschi” proviene da un contesto prettamente maschilista. Il figlio maschio sarebbe divenuto il nuovo capofamiglia e che avrebbe portato avanti il cognome paterno. Fortunatamente, al giorno d’oggi, la società è cambiata e questo modo di dire, per quanto consuetudinario, può essere visto come un qualcosa di oramai superato. Ai giorni nostri al bambino può essere dato tranquillamente tanto il nome del padre quanto quello della madre. In passato c’era la mentalità che il figlio maschio fosse colui che dava “man forte in famiglia“.
Un’espressione contadina
Dobbiamo calarci prettamente nella cultura contadina dei tempi andati. All’epoca non c’era la tecnologia che utilizziamo oggi. I campi si coltivavano (quasi) completamente a mano, con l’ausilio dei pochi attrezzi all’epoca disponibili. Il maschio era visto come il sesso forte, dunque la forza contadina era assicurata dall’uomo. La nascita di un maschietto, oltre a essere una gioia per il lieto evento di base (una nuova vita) era anche vista come una risporsa economica in più. Una volta cresciuto, il figlio maschio era destinato al lavoro di agricoltore, portando avanti l’attività di famiglia nei campi.
Inoltre, il figlio maschio doveva prendersi cura dei genitori anziani. Sempre in contesti antichi, infatti, il figlio maschio era designato a essere il “bastone della vecchiaia” dei genitori. Al giorno d’oggi parecchi anziani vengono spediti in case riposo, poiché i loro figli, avendo la loro vita, il loro lavoro e le loro famiglie, non hanno tempo di dedicarsi ai loro vecchi, spesso costretti a vivere in solitudine. Il bastone della vecchiaia per eccellenza è sicuramente Enea descritto mentre fugge da Troia. L’eroe scappa dalla città oramai caduta tenendo per mano il figlioletto Iulo, trasportando le statuette degli dei protettori di Troia e, allo stesso tempo, portando in spalla il vecchio padre Anchise. Questa iconica raffigurazione rappresenta Enea come il perfetto “pater familias“.
Vita più agiata per i maschi
I figli maschi avevano numerosi privilegi in famiglia. Nell’antica Roma, l’uomo che si sposava diventava pater familias, ovvero il capofamiglia. Dobbiamo infatti pensare la famiglia all’epoca come una mini società. Il maschio, il pater familias, aveva diritti di vita e di morte sulla moglie e i figli. Era lui stesso che doveva riconoscere il proprio figlio una volta venuto al mondo. Il pater familias era inoltre colui che aveva potere sugli schiavi e poteva decidere se affrancarli, dando loro la libertà, che però doveva essere riscattata dai servi, tramite un pagamento in denaro. Insomma, il maschio, aristocratico popolano che fosse, era comunque destinato a diventare un “dirigente”.
E le figlie femmine?
Come già detto, in tempi antichi le donne non lavoravano. Le fanciulle spesso rimanevano a casa aiutando la madre nelle faccende domestiche, passando poi il resto del tempo a filare. Una volta raggiunta l’età del matrimonio, le ragazze dovevano sposarsi e assicurare al marito nuova prole sana e forte (e possibilmente figli maschi). Nelle famiglie nobili, le ragazze per potersi sposare dovevano assicurare una dote al marito, in caso contrario il loro destino era il convento. Ne sa qualcosa la povera Monaca di Monza, la cui storia è raccontata da Alessandro Manzoni ne I promessi sposi.




